A colori vivissimi ci è stato descritto, con una fantasia degna di miglior causa. Frugando nei messaggi che Dio stesso ci ha mandato abbiamo scoperto che le cose non stanno proprio come ci avevano detto. Vediamo perché.

“Quando Dio si alza per giudicare, per salvare tutti i poveri della terra (Sal 76,10)

Per “giudizio” noi intendiamo sia quello che viene celebrato in tribunale sia quello che si realizza continuamente nella vita di ogni giorno. Ambedue hanno una grossa incidenza sulla vita delle persone; il secondo in modo meno vistoso e solenne del primo, ma con conseguenze non meno rilevanti.

Mai come oggi abbiamo l’amara sensazione che “la giustizia”, intesa come “dare a ciascuno quello che gli spetta”, non sia rispettata. Troppe volte in tribunale la spunta chi può permettersi gli avvocati migliori. Così il tribunale più che dichiarare l’innocenza dichiara la non punibilità.

Noi giudichiamo in continuità: persone, eventi, situazioni. Purtroppo pregiudizi, opinioni, luoghi comuni, stereotipi … condizionano pesantemente il giudizio che una persona dà di un’altra. E’ praticamente impossibile sottrarsi al giudizio: qualunque cosa noi facciamo ci espone al giudizio degli altri.

Sulla nostra mania di giudicare gli altri ha detto la sua Gesù di Nazareth: «Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,1-2).

Chiediamoci: Perché siamo così attirati dalla voglia di giudicare? Su che cosa si fondano i giudizi che noi formuliamo? Quale risultato raggiungono i nostri giudizi?

La chiamano anche sindrome di Pilato: «Pilato … presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla: Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!» (Mt 27,24). Giudicare è un modo per mettersi al di fuori del problema, lavarsene le mani: “Io l’avevo detto!”.

Il nostro giudizio avviene di solito sulla base di stereotipi (es. quelli di sinistra … quelli di destra … i comunisti, gli extracomunitari, ecc.), e di pre-giudizi e pre-concetti (il pre sta ad indicare un giudizio dato prima di conoscere le cose).

Il nostro giudizio può, al massimo, dire la “verità” su di una persona o un evento, mai modificare o migliorare le cose. Proprio alla luce di questo vorrei rifarmi a un episodio del Vangelo dove sono a confronto il giudizio di Dio e quello dell’uomo: Il fariseo e il pubblicano al tempio (Lc 18,9-14)

È una “parabola”, cioè un insegnamento che Gesù traduce in un racconto. La cornice in cui il fatto avviene è il piazzale del tempio, in un giorno di preghiera. Cornice provocatoria, che mette in discussione la religione del tempo con le sue tradizioni. Protagonisti, sono due “stereotipi”: un fariseo e un pubblicano. Del primo la gente non può che dire bene. È ammirato … e basta. L’altro rappresenta il massimo dell’abiezione morale. Tutta la gente lo disprezza e gli sta lontano.

Lo sguardo della gente si ferma alle apparenze; lo sguardo di Gesù va al cuore e vede che cosa vi si nasconde: nel primo caso una grande boria, una devastante presunzione; nel secondo caso vede una persona che ha preso coscienza della sua abiezione e tenta l’unica via possibile per uscirne: chiedere perdono. La conclusione è un insegnamento decisamente rivoluzionario del Rabbi: «questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro».

Il giudizio di Gesù toglie il velo degli stereotipi e mostra come stanno veramente le cose. È il giudizio dell’uomo che si ferma alla superficie (alle apparenze) senza penetrare seriamente nella realtà profonda.

IL GIUDIZIO DI DIO: INCUBO O LIBERAZIONE?

Quando noi tentiamo di parlare dell’agire di Dio corriamo il rischio del fraintendimento. Non possiamo attribuire a lui le nostre caratteristiche radicalmente diverse. Possiamo solo imbastire delle vaghe analogie. Anche il tema del giudizio di Dio sottostà a questa logica: Dio giudica, ma in modo radicalmente diverso da noi.

Stiamo attenti anche ad un linguaggio umano presente anche nella liturgia.

Espressioni come giudizio finale … fine del mondo … morte eterna … vita eterna … vanno lette in una prospettiva diversa da quella che regola il nostro pensare. Dio è fuori dai parametri di “tempo e spazio”. Per Dio esiste solo il presente. Dire che Dio ci aspetta “alla fine” per giudicarci non ha senso perché Dio giudica “ora”.

La nostra conoscenza di Dio è progressiva e graduale. Israele è arrivato a farsi un’idea di Dio passando da una concezione ingenua e antropomorfica (a Dio venivano attribuite tutte le caratteristiche umane su di una scala più grande) fino a raggiungere l’intuizione di “Qualcuno assolutamente altro”. Solamente dopo un percorso di millenni, nella 1 Lettera di Giovanni) viene detto di Dio qualcosa di definitivo: «Dio è amore» (4,8).

Anche per la giustizia di Dio dobbiamo fare un discorso analogo. Insoddisfatti della giustizia umana l’uomo ha cercato in Dio una giustizia che lo appagasse veramente. È stato un cammino lungo.

IL LUNGO CAMMINO DEL GIUDIZIO DI DIO

Il giudizio di Dio costituisce un contenuto indiscutibile della fede sia dell’AT che del NT. Già nei testi più antichi del Primo Testamento Dio si rivela giusto nel senso che non colpisce indistintamente giusti e peccatori. Nel dialogo tra Abramo e Jhwh a proposito della punizione delle due città corrotte, Sodoma e Gomorra, Jhwh si mostra disponibile a risparmiare le città per non colpire i giusti che vi si trovassero, anche se il loro numero fosse stato piccolo. Il Dio di Israele agisce nella storia con criteri di assoluta giustizia e, in ogni caso, al centro della sua attenzione ci sono i giusti che egli non colpirà mai.

Il pio Israelita, però, è convinto che la storia non sarebbe completa se Dio non intervenisse a pareggiare i conti. Espressione di questa attesa sono molti Salmi.

DIO GIUDICA “OGGI” E IL SUO GIUDIZIO È VERITÀ

«Lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» sono le parole più terribili che troviamo nel Vangelo e sono a conclusione del brano detto del “giudizio finale” (Mt 25,31-46). Da qui è nata l’angosciante immagine del “giudizio di Dio”, che pende come una spada di Damocle sul credente. La tradizione popolare vi ha lavorato di fantasia e anche la Liturgia ha aggiunto i suoi tocchi di teatralità (ricorda il Dies irae e il De profundis… nella liturgia dei defunti).

Ma chiediamoci: non è contraddittorio che quel Dio, che Gesù ci ha rivelato essere un “Padre” affidabile e disposto a tutto per venirci in aiuto, diventi improvvisamente giudice implacabile dell’uomo, quando di fatto non ci sarà più né tempo né possibilità di recupero per chi ha sbagliato?

L’apostolo Paolo nella sua prima lettera al discepolo Timoteo scrive: «Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tim 2,3-4). Come è possibile allora che Dio, che vuole la salvezza di ogni uomo e che ogni uomo giunga alla felicità, sia proprio lui a firmarne la condanna eterna?

Rimane come un’ombra inquietante la pagina del Vangelo secondo Matteo comunemente detta del “giudizio finale” (Mt 25,31-46), che sembra non darci via d’uscita. Forse qualcosa di questa pagina ci sfugge perché proprio qui abbiamo una splendida rivelazione che può farci da guida nella vita. Gesù ce lo dice con l’immagine del pastore.

LA SAGGEZZA DEL PASTORE

In Palestina, quando giunge la sera, i pastori, rientrando, sono soliti mettersi all’ingresso dell’ovile per separare le pecore che hanno appena figliato o stanno per figliare, gli agnellini e i capri. Nel recinto ci sono pochi posti al riparo e la notte spesso porta temperature basse e intemperie. I capri, più robusti, possono passare la notte all’aperto, mentre le pecore è meglio che rimangano al riparo dal freddo e dalle intemperie. Gesù si serve di questa immagine presa dalla vita di tutti i giorni per dare un suo insegnamento. Quale?

Non si tratta di un giudizio morale, ma di una scelta pratica: il pastore si mette dalla parte dei più deboli.

Gesù ne fa subito delle deduzioni morali e le suggerisce ai discepoli: «Avevo fame … avevo sete … ero nudo … ero forestiero … ero malato … ero in carcere …» (Mt 25). Elenca delle situazioni di disagio e, per rafforzarle, si coinvolge in prima persona («avevo fame e sete … ero forestiero …») in quelle situazioni e lascia al discepolo la scelta da fare. Così facendo è il discepolo stesso che pronuncia il giudizio su di sé.

IL GIUDIZIO DI DIO È OGGI

Il nostro brano non parla del “futuro” (fine del mondo), ma di «quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria» e questo è stato quando egli ha offerto la sua vita sulla croce e ha chiuso per noi la partita con il male.

Il tempo di vita che Dio ci concede è un tesoro prezioso che non può essere sprecato. Ogni istante è unico e irrepetibile. Ma come possiamo far fruttare questo capitale? Su quale titolo impegnare questo valore?

Con questa parabola Gesù ci vuol indicare il modo più sicuro per impegnare il tempo che abbiamo a disposizione. L’indicazione è precisa: metà della parabola è occupata da queste indicazioni. Sono così importanti che Gesù le ripete per ben quattro volte. Si tratta di “sei opere di misericordia”.

Queste opere di misericordia erano già conosciute nel Medio Oriente antico (cfr. Is 58,6-7). Su una tomba egiziana del 2500 a. C. si trovano queste parole, poste sulla bocca del defunto: “Io ho dato il pane all’affamato, ho vestito l’ignudo, ho offerto un passaggio a chi non aveva una barca”. La novità apportata da Gesù è il fatto che egli si identifica con le persone che sono nel bisogno. Qualunque cosa sia fatta ad uno di questi piccoli la ritiene fatta a sé.

Dio si schiera dalla parte dei più deboli, a questi dedica i suoi favori e le sue attenzioni. Assomigliare a Dio è il sogno dell’uomo di sempre. I nostri progenitori hanno sbagliato a valutare: pensavano che assomigliare a Dio significasse possedere tutto, dominare su tutto su tutti, essere al centro di tutto. Invece Dio, attraverso Gesù, ci ha fatto sapere che egli è il più grande di tutti perché serve tutte le sue creature; è il più ricco di tutti perché da tutto a tutti e mette tutte le sue creature al centro della sua attenzione.

E la condanna di cui parla la seconda parte della parabola? Dio, alla fine, non castigherà i malvagi? Dipende cosa intendiamo per castigo e punizione. Il giudizio pronunciato dal re non va inteso come una condanna di chi ha sbagliato; è la drammatica constatazione di come sono andate le cose: uno sperpero di possibilità di felicità e di grandezza. La vittoria di Dio non è mai la morte del peccatore, ma la sua conversione. Dio è l’amore che non abbandona nessuno, ma che aiuta a ripartire chi è finito fuori strada. Allora non ci si deve porre la domanda: “Chi sarà considerato pecora e chi capro alla fine del mondo?” Il problema è sapere chi oggi è pecora e chi è capro, e comportarsi come ha fatto il “pastore”.

La parabola del Maestro riguarda l’aldiqua non l’aldilà. È un aiuto a vivere saggiamente e positivamente la vita presente.