Rilettura del “Cantico dei cantici” (cap. 4)

In una cultura come la nostra dove tutto è finalizzato al proprio tornaconto, anche l’amore perde la sua capacità di elevazione e contemplazione e diventa “usa e getta”. Il ritorno all’amore come elevazione spirituale sarebbe un grande ritorno.

Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella! 
Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Galahad.
2 I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno;
tutte hanno i gemelli, e nessuna di loro è senza figli.
3 Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è piena di fascino;
come spicchio di melagrana la tua gota  dietro il tuo velo.
4  Il tuo collo  è come la torre di Davide, costruita a strati.
Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di eroi.
5 I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
6 Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre,
me ne andrò al monte della mirra e sul colle dell’incenso.
7 Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia.
8 Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni!
Osserva dalla cima dell’Amana, dalla cima del Senìr e dell’Ermon, 
dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi.

9 Tu mi hai rapito il cuore,  sorella mia, sposa,
tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!
10 Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze.
L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.
11 Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.

12 Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata.

13 I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo,

14 nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con ogni specie d’alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi.

15 Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano.

16 Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti.

La bellezza è un dono di Dio all’umanità. La bellezza non va dimostrata, si impone da sé. Essa senza argomenti convince; senza armi disarma; senza lacci avvince. È una forza nativa, diffusa in tutto il creato: bello è il cielo e bello il panorama e il fiore, elegante e bello l‘animale; è bella una poesia, una musica … “La bellezza salverà il mondo” è il titolo di un saggio del filosofo bulgaro Cvetan Todorov. La bellezza corre dei rischi a causa della stupida umana cupidigia. Una stella alpina, una rosa, un’orchidea vengono tagliate come omaggio ad una persona amata; diventano proprietà privata e smettono, così, di essere per tutti. La vista di un camoscio o di un’antilope fa tendere l’arco o puntare il fucile per avere un trofeo … La bellezza è esposta a gravi rischi, anche quella del corpo.

In questo senso è molto bello il Cantico dove la bellezza è contemplata, non posseduta. Al “Canto dell’amata” nel primo capitolo, ora è l’amato che intesse un bellissimo canto su di lei, di fronte alla bellezza del suo corpo e al mistero del suo amore. Il canto dell’innamorato si svolge in due momenti: “Dittico del corpo” e “Dittico del giardino”.

Dal silenzio la contemplazione

Fattosi il silenzio dopo la grandiosa processione nuziale di Salomone, si leva il canto d’amore dello sposo. È una finissima lirica dai toni erotici molto delicati. Il tema è uno solo: il fascino e lo splendore del corpo femminile, espressione di una bellezza umana, spirituale e corporea, interiore ed esteriore.

Lo sguardo dell’innamorato percorre il pianeta vivo e affascinante del corpo della sua donna. Nel cap.7 lo rifarà, ma partendo dei piedi, freneticamente mobili durante la danza, ora, quasi una ripresa cinematografica, parte invece, dal volto. Attraverso il velo, imposto in Oriente alle donne, balenano gli occhi «simili a colombe», come dice il poeta, rievocando l’animale della tenerezza, della fedeltà e dell’amore caro al Cantico. L’innamorato affida a due dittici la piena dei suoi sentimenti.

Dittico del corpo femminile

Tutti i sensi sono coinvolti in un’esperienza di eros autentico, mentre in filigrana si intravede una regione della terra promessa. Il corpo della donna è per certi aspetti l’immagine della terra feconda, oggetto della promessa e della benedizione divina. Il gioco dei colori compone ai nostri occhi il viso della donna.

Col gusto un po’ barocco della poesia semitica, le immagini si accalcano ed esplodono in giochi di colori, di simboli, di profumi, di suoni. Dietro il velo nuziale brillano gli occhi affascinanti e dolci. s’intravede la lucentezza dei capelli a cui fa da contrappunto il candore dei denti. Filo di porpora sono le labbra, spicchio di melagrana è la gota, fermo e slanciato il collo come una torre che svetta verso il cielo, mentre i seni, liberi sotto la veste, richiamano al poeta il dolce saltellare dei cerbiatti… Da questa contemplazione la poesia si accende sempre più di entusiasmo e di ebbrezza fino a diventare estasi e «follia». Infatti il canto dello sposo sembra quasi impazzire e tendere all’ineffabile, al rapimento (v.9).

Siamo di fronte a una poesia «corporea» di grande purezza e «spiritualità», che richiede occhi limpidi e cuore puro. Il corpo è sempre più nel Cantico un grande strumento di comunicazione spirituale. Ogni sua dimensione concreta acquista significati insospettati di vita, di tenerezza, di amore, di dialogo.

Il collo dell’amata oltre che simbolo di bellezza e di eleganza, richiama all’amante poeta la torre di Davide, anche segno di inaccessibilità, di purezza, di verginità. La tradizione cristiana ha applicato l’immagine a Maria; nelle Litanie le attribuisce i due titoli di «torre di Davide» e di «torre d’avorio».

Il riferimento ai seni della donna è fatto con tenerezza delicata. Li paragona a una coppia di cerbiatti che balzano, pieni di vitalità, su un campo di gigli. Un erotismo delicato, appena accennato, che non conosce volgarità, insistenza, malizie, ma neppure ipocrisie.

L’innamorato sogna di intraprendere un viaggio, mentre l’aurora allunga le ombre del nuovo giorno: «Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso». L’incenso unito alla mirra accompagnava come in una nuvola odorosa la lettiga di Salomone. Possiamo immaginare che il poeta voglia allusivamente descrivere l’abbraccio desiderato dall’amato con la sua donna.

La sua contemplazione era partita dal capo e aveva percorso il collo e il busto; ora approda al segno della congiunzione dei due corpi e lo fa con la castità e la purezza di chi non ha pruriti di ipocrisia o di pornografia. Tutto il corpo è ora posseduto visivamente e tattilmente, ma anche spiritualmente, in un dialogo perfetto, in un’esperienza di bellezza assoluta e intatta, in un’intensità che è fisica e spirituale e che attua quanto è detto di Gen 2,24: «I due saranno una sola carne».

Dopo aver percorso con lo sguardo e con l’ammirazione tutto il corpo dell’amata, l’uomo non può trattenere un’esclamazione finale che riassume in sé tutto lo stupore per la bellezza, per la perfezione e per l’ideale pienezza fisica e spirituale che quel corpo manifesta: «Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia».
 (v.7). È un’esperienza di bellezza intatta; difetti e macchie sono cancellati dal fuoco purificatore dell’amore.

L’innamorato presenta una seconda descrizione del corpo della donna (vv. 8-119). Il poeta fa emergere la donna da una cornice, selvaggia, verdeggiante e carica di sensi simbolici, perché essa s’avanzi come una regina e venga e raggiunga l’amato. Il Libano (che significa monte bianco) è un luogo caro al Cantico, che lo cita ben sette volte. Esso fa da sfondo con le sue foreste, dove vivono liberamente gli animali, è un punto di riferimento costante per gli autori biblici per parlare del rigoglio e dello splendore della natura (Is 35,2; 40,16; 60,13; Ab 2,17).

Ma ora, evocata la presenza dell’amata, l’innamorato intesse di nuovo il suo canto, dipingendone il viso e il corpo. Il v.9 vuole indicare quasi l’incantesimo che l’amore crea nel cuore dell’innamorato, l’emozione forte ed esaltante. È significativo notare che la conquista dell’amato avviene attraverso un solo sguardo. Questa tipologia dello sguardo degli innamorati e del loro misterioso linguaggio è presente in tutte le letterature.

Al termine «sposa» viene abbinata l’espressione «sorella mia». Questo appellativo indica l’amata senza implicazioni di consanguineità: nell’amore di coppia raggiungono il loro vertice tutti i sentimenti e i legami umani. Il rapporto di fraternità nell’Antico Oriente riassume in sé tutte le relazioni interpersonali. La donna amata è, vista come sorella, come madre, figlia, amica, sposa, concentrando in sé tutte le potenzialità dell’amore.

L’amato ripete quanto l’amata aveva detto di lui all’inizio del cantico: «Le tue tenerezze sono più dolci del vino» (1,2-4). Ritorna qui il connubio tra vino e amore e viene introdotto, come termine di paragone, il balsamo, vocabolo caro al Cantico, che lo cita ben sette volte. La ragione è il fascino delle carezze dell’amata. L’aroma del balsamo crea una suggestione profonda («Tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento» si dice in Gv 12,3). Tutto il versetto è percorso da un brivido di ebbrezza, sempre sulla scia dell’incantesimo degli occhi, sperimentato nel versetto precedente.

Il gusto e l’odorato creano un effetto di seduzione. Labbra e lingua sono protagoniste in questo messaggio. Il bacio è come il respiro, aspirare la dolcezza, che è come il miele. Accanto al gusto è coinvolto anche l’odorato, per via dei profumi che impregnano le vesti della donna, cosparse di essenze silvestri provenienti dal Libano.

I vv.8–11 presentano un rapimento, un abbandono totale dell’amato nelle braccia dell’amata. Sullo sfondo si erge la montagna del Libano, la vetta dell’amore, della freschezza, dei profumi, della primavera.

Il canto del corpo si svolge ora su un altro registro simbolico, quello del giardino. Il vero giardino delle delizie e della bellezza sarà sempre il corpo della donna, contemplato e esaltato.

dittico del giardino

Il giardino è subito abbinato a una sorgente e tutti e due sono sigillati, vietati agli estranei. È un’allusione abbastanza nitida all’illibatezza della donna, alla sua fedeltà. La spiegazione più limpida del nostro brano forse la troviamo in Pr 5,15–20: «Bevi l’acqua della tua cisterna, che zampilla dal tuo pozzo. Non spargere per le strade la tua sorgente, né i tuoi ruscelli sulle piazze: siano per te solo, non spartirli con estranei! Benedetta sia la tua sorgente, godi con la sposa della tua giovinezza: cerva amabile, graziosa gazzella, sempre ti inebrino le sue carezze, sii sempre invaghito del suo amore! Perché, figlio mio, invaghirsi di una straniera, perché stringerti al seno un’estranea?».

La presenza primaverile delle gemme e dei germogli si intona bene alla fisionomia fisica della donna. Tutta la donna è un giardino di delizie. I suoi «germogli» sono la freschezza della sua bellezza, del suo eros, della sua intimità.

Il poeta riprende l’immagine della sorgente del giardino incantato delle delizie. È una sorgente che affiora dal terreno all’interno di un’oasi rendendola verdeggiante e florida. Le acque del pozzo del giardino sgorgano dal Libano, il monte che fa da sfondo a tutto il brano. Queste acque vive scendono a cascata dal monte Libano.

Con l’immagine di un pozzo sorgivo, le cui acque vengono dalle nevi perenni del Libano, le parole dello sposo si interrompono per lasciare lo spazio a un breve appassionato ed esaltante intervento della donna.

Essa, con un appello di grande potenza, nel v. 16, si indirizza ai venti settentrionali e meridionali perché avvolgano lei e il suo giardino, così da far esalare in tutta la loro intensità gli aromi in esso celati. L’amato è invitato ad entrare nel giardino della donna: «Venga il mio diletto…». L’oasi chiusa viene aperta dalla donna stessa; il sigillo della fonte è spezzato e lo sposo è chiamato a cibarsi dei frutti squisiti ed esaltanti dell’amore. Ed egli risponderà accogliendo con gioia l’invito a entrare nel giardino dell’amore. Con l’inizio del capitolo 5 si chiude il piccolo poema.

«Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo;

mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte.

Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari».

L’uomo raccoglie l’appello della sua donna ed entra nel giardino dell’amore, dove si lascia sedurre dai profumi, dove egli sarà rinvigorito dal miele che cola dai favi, dove sarà dissetato da un latte dolcissimo e da un vino generoso. A questa mensa d’amore, che sana ogni limite e ogni debolezza, egli è assiso come un principe.

Nel Cantico questo giardino chiuso incarna soprattutto l’idea di mistero invalicabile che è racchiuso nel corpo della donna e che può essere svelato solo per donazione, non conquistato per violenza. Quel giardino chiuso è “l’io femminile, padrone del proprio mistero”, è “l’interiore inviolabilità della persona” (Giovanni Paolo II). È solo col dono d’amore che la diversità e l’originalità, insite in ogni persona, si sciolgono e le porte del giardino si spalancano. Allora, continua Giovanni Paolo II, “la sposa risponde allo sposo con le parole del dono, cioè dell’affidamento di sé stessa”.