I momenti che pesano di più nella vita sono quelli in cui non aspettiamo nulla e nessuno. Tutto è piatto, grigio, monotono, ripetitivo … Non c’è fantasia, non c’è emozione. È il segno della vecchiaia del cuore. Avvento invece vuol dire “attesa”: attesa di qualcosa che è già venuto ma che si rinnova con tutte le sue sorprese. Frastornati da mille problemi, da infinite preoccupazioni, noi rischiamo di non lasciarci cogliere dalle sorprese di Dio. A questo scopo la Liturgia dell’Avvento ci prepara con i forti richiami dei profeti e con pagine estremamente illuminanti del Nuovo Testamento. La prima tappa dell’Avvento è già essa stessa una sorpresa.

Dopo la disfatta militare del 587 a. C. ad opera dei Babilonesi, un gruppo di Israeliti (gli uomini più validi) si trovano deportati a Babilonia. Hanno ancora impresse nella mente le tragiche immagini della distruzione della loro città, le violenze, le devastazioni …

Mentre questi deportati cercano la ragione di una così orrenda sciagura, un loro poeta compone una commovente preghiera; una delle più belle di tutta la Bibbia.

Il brano si apre con una accorata invocazione a Dio chiamandolo con due termini che meritano la nostra attenzione: «Tu sei nostro padre, da sempre sei chiamato nostro redentore». Si tratta di uno dei pochissimi passi dell’Antico Testamento in cui Dio è chiamato “Padre”. In Israele quando si parlava del “padre” si intendeva sempre Abramo, il capostipite. A Babilonia però si rendono conto che né Abramo, né Isacco, né Giacobbe li potevano più soccorrere. I patriarchi avevano tutte le ragioni per vergognarsi di quei loro figli degeneri: «Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi». Il termine redentore è pure molto significativo: era il termine con cui si indicava il parente più stretto, sul quale cadeva la responsabilità di riscattare un membro della famiglia, che avesse perso la libertà o perché fatto prigioniero oppure perché, oberato dai debiti, aveva dovuto consegnarsi come schiavo al suo creditore. Questo inderogabile dovere era adempiuto in due modi: o raccogliendo la somma richiesta per il riscatto, oppure consegnando se stessi in sostituzione del proprio congiunto.

Dopo la distruzione di Gerusalemme non si poteva più contare su alcun redentore perché tutti erano schiavi. Non rimaneva che ricorrere a Dio, supplicarlo di assumersi il compito di redentore.

Con gli anni si erano adattati alla loro nuova condi­zione e molti erano riusciti addirittura a raggiungere una buona posizione sociale. Avevano trovato lavoro e benessere; avevano messo su una nuova famiglia; si erano adattati ai nuovi culti e alle nuove tradizioni religiose. Stavano tanto bene che non pensavano affatto a ritornare.

Un detto dei rabbini sosteneva che la più grande fatica per Jahweh non fosse stata tirare fuori il suo popolo dall’Egitto e da Babilonia, ma tirare fuori dal cuore del suo popolo Babilonia e l’Egitto.

Improvvisamente fra loro si ode la voce di un profeta. Una voce decisamente scomoda e inquietante, ma alla quale non riescono a non dare ascolto. In un momento in cui tutto sembrava finalmente andare per il meglio quella voce indica nubi minacciose all’orizzonte. Il profeta pensava fosse giunto il momento e risvegliare negli esuli la speranza che la schiavitù fosse finita e che fosse imminente il loro ritorno nella terra dei loro padri. Si tratta di gente che ormai stava bene così com’era e non pensava affatto a ritornare in patria. Non si accorgeva nemmeno che correva il grosso rischio di rimanere tagliata fuori dalla storia di salvezza e dalle promesse fatte Dio ad Abramo ed alla sua discendenza.

Anche oggi ci sono schiavitù brutali da cui da cui si fugge con tutte le forze, ma ci sono anche «schiavitù dorate» dalle quali non si ha nessuna voglia di uscire. A volte la libertà è molto più faticosa e scomoda della schiavitù dorata. In questo senso anche noi diciamo che questa nostra è «una valle di lacrime», ma tutto sommato ci piangiamo tanto bene! Sono veramente pochi quelli che vogliono cambiarla con la valle della libertà. La «terra» di cui parlava il profeta della lettura di oggi era «l’alleanza tra Jhwh e il suo popolo», l’unica vera terra in cui Israele poteva vivere in libertà.

Lo ricordiamo tutti il racconto dei due cani: uno magro e randagio, che viveva la sua vita difficile nel bosco, sopravvivendo come poteva, e l’altro ben pasciuto che viveva nel cascinale. Dopo costui aveva descritto al randagio la bella vita che faceva, il cane selvatico aveva chiesto, indicando il collare e il guinzaglio: “Cosa quella cosa che hai attorno al collo e che ti tiene legato al palo? Preferisco la mia vita di randagio”.

Rileggendo la preghiera di questo sconosciuto profeta ci accorgiamo che la sua preoccupazione non era tanto la deportazione ma l’oscuramento mentale di quella gente. Questa era la loro vera e grande schiavitù.

Il Vangelo ripete, poche righe, per ben cinque volte la stessa parola: «vigilare… vegliare». Cosa intende richiamare con questo invito? Che significa “vigilare”? Perché il padrone invece di arrivare di giorno arriva di notte quando nessuno se l’aspetta? Chi rappresenta il portinaio a cui il padrone chiede di vigilare? Chi è il padrone? Dove è andato? Quali poteri ha lasciato ai suoi servi?

All’inizio della nostra riflessione dicevamo che ci sono schiavitù dorate che noi accettiamo. Vigilare significa renderci conto in tempo di quello che stiamo rischiando. La raccomandazione è tanto importante che Gesù sente il bisogno di ribadirla anche con una brevissima parabola: «È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare». Una parabola che diventa eloquente se riusciamo a chiarire alcuni termini: notte, padrone di casa, il portiere, i servi.

● Iniziamo a chiarire il significato della notte. Perché tanta insistenza sul tema della notte? I rabbini del tempo di Gesù dicevano che Dio era intervenuto nella storia del mondo durante “quattro grandi notti”. La prima fu al momento della creazione. Dio mise ordine nel caos e fece apparire tutte le creature. La seconda fu quella in cui Dio stipulò la sua alleanza con Abramo (Gen 15). La terza, la madre di tutte le notti, fu quella della liberazione d’Israele dall’Egitto. Infine la quarta notte: è quella futura, quella in cui Dio interverrà per spezzare tutte le catene, per porre fine ad ogni.schiavitù, per creare il mondo nuovo, per dare inizio al suo regno. Questa notte deve ancora venire, bisogna attenderla.

I cristiani, fin dai primi tempi della Chiesa, hanno scelto la notte per celebrare le loro feste principali. La grande liturgia del battesimo aveva luogo durante la notte di Pasqua e oggi l’Eucaristia di Natale è celebrata a mezzanotte, quando l’oscurità e più profonda. Nella notte si fermano le nostre attività, ma quelle di Dio continuano.

Quando, nel Nuovo Testamento si parla della venuta del Signore durante a1 notte ci si riferisce a questa quarta notte. E invece “la nostra notte”, è il tempo in cui viviamo, tempo che è buio, tempo in cui le proposte che riscuotono i maggiori consensi sono quelle edonistiche, non le beatitudini di Gesù.

● La notte qui è il simbolo dell’oscurità che a volte o spesso cala su di noi. Tutti abbiamo conosciuto momenti luminosi nella nostra vita: quando eravamo giovani in buona salute, forti, belli, simpatici, con una professione sicura e ben pagata, stimati e cercati dagli amici. Era bello vivere. Poi, con gli anni, sono arrivate le difficoltà, le notti della crisi, della malattia, del dolore, dell’incomprensione, della vecchiaia, dell’abbandono. Allora siamo rimasti sconcertati, siamo colti dallo sconforto e non sappiamo più a chi rivolgerci, non vediamo più nessuno al nostro fianco. Sono questi i momenti in cui dobbiamo vegliare e coltivare la fiducia nel Signore che viene ad illuminare tutte le nostre notti.

Il padrone della casa è evidentemente Gesù. Egli non se n’è andato per sempre. Tornerà. E non ha abbandonato gli uomini in balia di loro stessi. Lasciando questo mondo ha incaricato i suoi discepoli di portare a compimento l’opera da lui iniziata. Conforme alle sue capacità, ognuno di loro è chiamato a svolgere un ministero a servizio dei fratelli.

Il portinaio che deve essere più vigilante degli altri rappresenta è colui che, nella comunità (religiosa ve civile), ha la responsabilità di mettere in guardia dai rischi e dai pericoli (genitori, insegnanti, politici, sacerdoti, vescovi, papa …). Loro compito è mantenere svegli i loro fratelli più deboli che rischiano di diventare succubi di ideologie, abitudini e costumi, arrivando anche a minimizzare certi comportamenti e che i più deboli arrivano ad accettare come normali. Oggi, da molti pulpiti (pubblica opinione, politica, mass-media, pubblicità …) i sente tutto e il contrario di tutto.

I servi sono i discepoli impegnati nel realizzare i progetti del loro signore. Ciascuno di essi ha un compito preciso e non può aspettare che lo facciano altri …

La postazione ideale per “vigilare” è l’Eucaristia, il banchetto attorno al quale ci riuniamo ogni settimana come fratelli. A questo appuntamento la parola dei profeti e del Maestro terrà desta la nostra attenzione e il Pane alimenterà la nostra speranza.

Avvento: La notte dell’amicizia

Due amici vivevano in due villaggi l’uno dall’altro lontani. Una sera scoppiò un gran temporale, e la luna non c’era; ma uno dei due amici si svegliò ed ebbe voglia di andare a trovare l’altro. Si mise in cammino, benché avesse paura che un fulmine potesse colpirlo o il fantasma della notte mangiarlo. Ma non si fermò fino a che non fu giunto alla capanna dell’amico. Era fradicio come fosse caduto in un fiume, ma portò nel capanno legna secca ed asciutta, accese il fuoco e fece cuocere il riso da offrire all’amico che frattanto si era svegliato. «Perché sei venuto di notte, con questo tempaccio?», gli chiese l’amico.

«Perché mi era venuta voglia di stare vicino a te. Forse che il temporale ti ha chiesto il suo permesso per scoppiare?».